Qualche riflessione sulla sentenza della Corte Costituzionale a proposito del Porcellum

In attesa di poter leggere le motivazioni della sentenza con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di alcune norme della legge elettorale del 2005 – il cosiddetto “Porcellum” – è possibile fare alcune riflessioni politiche a partire dal comunicato con cui la Corte ha reso pubblica la sua decisione.
La prima norma colpita è quella relativa all’attribuzione del premio di maggioranza assegnato alla lista o alla coalizione più votata senza la previsione del raggiungimento di soglia minima. L’elemento problematico di questo meccanismo deriva dal fatto che, in un quadro politico di accentuata frammentazione, può accadere che la lista o la coalizione vincente consegua la maggioranza di 340 seggi alla Camera dei Deputati pur avendo riportato una percentuale di voti non superiore al 30% dei voti o addirittura inferiore a tale valore. In questo modo la lista o la coalizione vincente si troverebbe ad avere in Parlamento un numero di seggi pari al doppio dei seggi spettanti in un meccanismo di riparto proporzionale semplice, il che porta ad una insopportabile disparità di trattamento tra il peso dei voti degli elettori della coalizione vincente e quello dei voti delle altre liste. Nelle ultime elezioni, ad esempio, per eleggere un deputato nella coalizione vincente servivano 30.000 voti, mentre per eleggere un deputato dell’opposizione nella stessa circoscrizione elettorale ne servivano 60.000 o più. Ciò vuol dire che il voto dei cittadini pesa in modo diverso e ciò contrasta con l’art. 48 della Costituzione che prevede il voto “uguale”. In un sistema democratico, i voti si devono contare e non pesare. Si possono, certamente, ammettere dei correttivi per garantire altri principi essenziali come il superamento dell’eccessiva frammentazione dei partiti tramite la fissazione di soglie, ma tali meccanismi devono introdurre correzioni non distorsioni. Qualcuno dirà che anche in un sistema di uninominale secco con il 30% si può avere il 60% dei seggi, ma ciò riguarda il risultato generale: all’interno della singola circoscrizione elettorale in quel sistema ogni voto vale in modo uguale e chi ne ha uno di più prende il seggio.
La seconda norma colpita dalla Corte – e qui la sentenza ha suscitato un certo stupore – è quella relativa alle liste bloccate che – pare di capire – soprattutto dove sono lunghissime (fino a 47 candidati) e non sono presenti sulla scheda elettorale di fatto impediscono ai cittadini non solo di scegliere i propri rappresentanti ma anche di “riconoscerli” con chiarezza, incrinando così la stessa idea di “mandato” parlamentare e di elezione diretta (art. 56). Tale mandato, infatti, si può considerare come un conferimento fiduciario da parte del cittadino del proprio potere sovrano ad un suo rappresentante che non può essere individuato in una mera entità impersonale (il partito le cui regole di funzionamento interno talvolta sfuggono a chiari meccanismi di democraticità e trasparenza), ma ha bisogno di poter essere chiaramente individuato in una persona fisica. L’espressione di un consenso nei confronti di un simbolo e non di una persona indebolisce in modo radicale la responsabilità personale del rappresentante, nonché la possibilità che i cittadini si possano riconoscere nell’agire dei propri rappresentanti, a maggior ragione se i nomi dei candidati non sono pochi – come nel caso tedesco, per la parte proporzionale, o spagnolo – ma sono in numero talmente elevato da impedirne il riconoscimento.
Se la Corte abbia fatto bene o male ad intervenire in modo così netto è naturalmente materia di altra valutazione. Ciò che è ora essenziale è intervenire sui punti indicati con una riforma della legge elettorale. Attenzione però a non buttare via il diritto dei cittadini non solo ad avere un voto quanto più uguale e quanto più libero nella scelta dei propri rappresentanti, ma anche a poter determinare la maggioranza di Governo ossia l’indirizzo politico del proprio Paese. Diversamente daremmo ai cittadini con una mano e con l’altra toglieremmo loro una prerogativa essenziale cedendola alle trattative – non sempre nobili – tra i partiti. In questa direzione bisogna salvaguardare rappresentatività e governabilità. Abbiamo cercato di farlo con una apposita proposta di legge (n. 1116 del 30 maggio 2013) che speriamo possa essere presto discussa alla Camera.

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