Sulla legge elettorale in discussione alla Camera: i rischi dell’oligarchia e del trasformismo

Audizione sulla proposta di legge C. 2329 Brescia, recante modifiche alla legge elettorale vigente

Commissione Affari Costituzionali, Camera dei Deputati, 30 giugno 2020

Gentile Signor Presidente,

Vi ringrazio molto dell’invito che mi è stato rivolto a partecipare al presente ciclo di audizioni nell’ambito dell’indagine conoscitiva sulla proposta di legge C. 2329 Brescia, recante modifiche alla legge elettorale vigente. E ringrazio anche della possibilità che mi è stata accordata di svolgere questa audizione in videoconferenza.

Voglio esprimere anzitutto un duplice apprezzamento sul piano del metodo, per le due ragioni che il proponente ricorda all’inizio della sua relazione illustrativa e che meritano di essere qui ricordate. La prima riguarda l’ampia distanza temporale dalla scadenza naturale della legislatura, che evita un dibattito affrettato e troppo condizionato dall’interesse immediato dei gruppi parlamentari esistenti, in ciò seguendo le raccomandazioni della Commissione di Venezia. La seconda riguarda la ricerca previa di un ampio consenso tra le forze politiche nello sforzo di garantire un’ampia maggioranza parlamentare al provvedimento e, ancor più, la convergenza tra forze di maggioranza e di opposizione. Non so a dire il vero, quale sia al momento lo stato di questo consenso sia all’interno della maggioranza che tra maggioranza e opposizione, ma dal punto di vista del metodo questa ricerca risulta oltremodo apprezzabile.

Dal punto di vista del merito, la proposta di legge prevede, in sostanza, un ritorno al sistema proporzionale con soglia di sbarramento al 5% e liste bloccate. Le ragioni addotte per motivare tali scelte sono in sostanza due: garantire al futuro Parlamento eletto con tale sistema il massimo di rappresentatività e il massimo di stabilità.

Vorrei fare qualche breve osservazione critica su questi due punti.

Certamente il sistema proporzionale appare in grado di garantire un maggiore tasso di rappresentatività dell’elettorato rispetto ad altri sistemi, se con rappresentatività si intende la capacità del sistema elettorale di “fotografare” gli orientamenti esistenti e riprodurne i rapporti numerici in scala minore all’interno delle assemblee elettive.

Se questo è l’intendimento della proposta, si rilevi che questa rappresentatività è tuttavia temperata dalla soglia posta al 5%. Una soglia piuttosto alta che produce certamente effetti significativi sull’uguaglianza del voto. Su di una partecipazione al voto di 30-35 milioni di elettori, potrebbe darsi il caso di partiti che raccolgono il consenso di più di un milione di cittadini e che non hanno la possibilità di rappresentarli in Parlamento. Con la soglia al 4% per l’elezione del Parlamento europeo, potrebbe darsi la situazione paradossale di partiti rappresentati a Bruxelles e non a Roma. Esiste naturalmente il diritto di tribuna a parziale compensazione, ma, in primo luogo, devono realizzarsi le condizioni previste dalla legge, in secondo luogo, esso ripara solo in parte agli effetti distorsivi che abbiamo menzionato.

La clausola del 5% può essere una salutare clausola anti-frammentazione, ma il sacrifico che essa comporta sul piano dell’uguaglianza dei voti deve essere significativamente compensato da una qualche garanzia di maggiore governabilità del sistema. Altrimenti essa risulta un vantaggio ingiustificato accordato alle liste maggiori. Nel modello che discutiamo – ma di questo diremo poi – le garanzie di una maggiore governabilità appaiono del tutto da definirsi.

Un secondo problema relativo alla rappresentatività del sistema riguarda la scelta dei candidati. In un sistema proporzionale a liste bloccate, il voto che i cittadini esprimono è di fatto un voto ai partiti e consegna nelle loro mani – sia pure con alcuni vincoli quali ad esempio il rispetto dell’equilibrio di genere – la scelta dei rappresentanti del popolo. Su questo enorme potere dei partiti richiama l’attenzione la Commissione di Venezia, ricordando come laddove si voglia garantire un’effettiva rappresentatività delle liste dei candidati, servono pratiche autenticamente democratiche, trasparenti e non occasionali di partecipazione degli elettori alla predisposizione delle liste. Gli esperimenti del passato condotti da alcuni partiti italiani tramite le cosiddette primarie o parlamentarie possono indicare delle strade da esplorare, ma sono ben lungi dalle pratiche consolidate – penso ai partiti tedeschi ad esempio – di scelta effettiva da parte degli iscritti ai partiti nei diversi territori dei propri candidati. Naturalmente, nelle democrazie consolidate, ogni partito si riserva la possibilità di inserire nelle liste competenze indiscusse di cui il serio lavoro parlamentare ha bisogno, ma si tratta generalmente di personalità riconosciute in cui l’elettorato può riconoscersi e da cui può sentirsi comunque rappresentato.

La pratica italiana di predisposizione delle liste pare assai più improntata ad una gestione centralizzata legata a meccanismi di fedeltà personale che ad una diffusa partecipazione dal basso e ad una attenzione alle competenze.

Si ponga quindi attenzione agli effetti che un sistema di questo genere può produrre nel consolidamento di fatto di un’oligarchia politica, rafforzata dal fatto che la soglia del 5% scoraggia certamente l’iniziativa di creazione di liste alternative e quindi consegna nelle mani delle segreterie dei partiti maggiori un ulteriore fondamentale strumento di pressione.

In sintesi: il sistema proposto avrebbe bisogno di partiti caratterizzati al proprio interno da un effettivo metodo democratico (intendendo l’art 49 in modo estensivo e non solo con riguardo alla democrazia fra i partiti) e dall’esistenza di stabili piattaforme ideali e programmatiche che facilitino la rappresentanza nel senso dell’identificazione simbolica.

In secondo luogo la questione della stabilità.

Il sistema proposto – in assenza di interventi sui regolamenti parlamentari e sulla forma di governo, di cui non ho conoscenza – mi pare che difficilmente, da solo, possa garantire una maggiore stabilità, se con stabilità intendiamo una maggiore stabilità di governo.

La lunga esperienza del metodo proporzionale nella cosiddetta Prima Repubblica – in presenza peraltro di partiti ben altrimenti strutturati sul piano ideologico e organizzativo – ha mostrato tutta la problematicità di tale sistema proprio in termini di stabilità di governo e di autorevolezza della presenza italiana sulla scena europea e internazionale. L’abnorme numero di governi che si sono succeduti in tale periodo – se comparati a quelli delle altre democrazie europee – lo sta a testimoniare.

Per questa ragione, a partire dalla fine degli anni ’70 si sono succedute proposte di rafforzamento della stabilità attraverso meccanismi di segno opposto rispetto alla presente proposta di legge, ossia attraverso proposte che puntavano al rafforzamento del potere di indirizzo da parte dei cittadini. Alcune di queste proposte prevedevano riforme istituzionali in direzione di una repubblica presidenziale o semipresidenziale, altre proposte prevedevano forme di democrazia parlamentare razionalizzate. Soprattutto laddove si voleva rimanere all’interno di una forma di democrazia parlamentare, si è puntato, attraverso modifiche della legge elettorale, a rafforzare il potere di indirizzo dei cittadini come appare chiaro nelle proposte della commissione Bozzi fino alla legge Mattarella. Al fine di conferire al voto politico dei cittadini il potere di determinare una maggioranza parlamentare e dunque un indirizzo politico si è favorita la presentazione di programmi, di coalizioni, di leadership chiaramente individuate prima delle elezioni in competizione tra loro.

Questo è il punto. La vera distinzione non è tra un sistema elettorale e l’altro, ma tra chi vuole riconoscere ai cittadini il potere di “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” (così dice l’art. 49 Cost) e chi vuole invece lasciare ai cittadini solo il potere di eleggere i propri rappresentanti in Parlamento (in questo caso, pure votando liste bloccate). In questo secondo modello, saranno poi i parlamentari a fare, dopo le elezioni e con le “mani libere”, le alleanze e i programmi di governo, come è avvenuto più volte recentemente. Ciò che è naturalmente del tutto conforme alla Costituzione, ma ha evidente natura emergenziale.

La fisiologia di un sistema parlamentare democratico prevede invece che il voto dei cittadini possa, con ragionevoli probabilità di successo, tradursi in un indirizzo di governo. Il verbo che la Costituzione usa all’art. 49 è molto forte: “determinare”. E’ lo stesso verbo che la Costituzione usa per definire il potere della legge. Non è un vago “influenzare”, ma è un chiaro definire, decidere, orientare, in modo chiaro e inequivocabile.

Purtroppo la presente proposta rischia di produrre un effetto opposto a quello sperato, ossia quello di indebolire la stabilità, indebolendo il potere di indirizzo politico dei cittadini tramite il loro voto. E’ chiaro infatti che in assenza di altri correttivi e non disponendo di uno stabile sistema bipolare, il presente modello di legge elettorale tende a prevedere il formarsi di maggioranze parlamentari eterogenee, non sostenute da un chiaro mandato elettorale, e può incentivare una pratica trasformistica che spinge partiti, gruppi, singoli parlamentari ad aggregarsi per motivi di convenienza più che sulla base di comuni piattaforme programmatiche, di cui dover e poter rendere conto agli elettori.

La pratica del trasformismo parlamentare ha una lunghissima storia nel nostro Paese. In età repubblicana ha estenuato la Prima Repubblica ed è quella che aveva portato la Commissione Bozzi nel 1983 a convergere sull’idea che fosse necessario muoversi in direzione opposta a quella che oggi si auspica, ricostruendo «un rapporto fiduciario diretto tra corpo elettorale, maggioranza e governo anche al di là della funzione mediatrice dei partiti». Si diceva allora che occorreva restituire “lo scettro al Principe” (Pasquino) o almeno rispettare “il cittadino come arbitro” (Ruffilli) per evitare che la partitocrazia scavasse una insopportabile frattura tra i cittadini e le istituzioni. Si parlava allora di una repubblica dei cittadini rispetto a una repubblica dei partiti. Così – contro l’idea e la pratica trasformistica – nacque l’idea di «un patto di coalizione pre-elettorale che consentisse agli elettori di scegliere non solo il partito preferito, ma anche governo e programma» (Commissione Bozzi). E quest’idea si basava su un sistema proporzionale – come quello di allora -, che prevedeva però un premio di maggioranza capace di conferire alla coalizione più forte il potere di tradurre in realtà l’indirizzo risultato maggioritario tra i cittadini. Magari associato a un sistema a doppio turno. Così nacque l’elezione diretta dei sindaci e dei presidenti di regione e la legge Mattarella – con impianto a prevalenza maggioritario – che introduceva di fatto l’idea di coalizioni in competizione tra loro con programmi e leader chiaramente presentati ai cittadini prima delle elezioni.

L’idea di fondo che era alla base di questo modello di democrazia governante era che i cittadini italiani fossero sufficientemente maturi per poter decidere autonomamente, senza dover venire espropriati di questo potere. La ragione per cui oggi qualcuno vede con favore un sistema come quello proposto, volto a creare necessariamente maggioranze eterogenee, risiede nella paura del risorgere di forze antisistema, che di nuovo, come nel secondo dopoguerra, sarebbero ostili alla collocazione del nostro Paese nel solco della sua tradizione europeista.  Ma questi sono nodi da sciogliere per via politica e non azzoppando la funzionalità delle istituzioni. Altrimenti si rischia di far regredire la democrazia italiana a una situazione di insano paternalismo, quasi fossimo in uno Stato post-coloniale in cui il voto popolare non deve poter produrre nessun vincitore. Con ciò si accetta che la determinazione della politica nazionale fuoriesca dal potere di indirizzo dei cittadini e dalle sue sedi istituzionali per albergare altrove, lasciando all’oligarchia dei partiti la malinconica funzione di spartirsi le risorse residue.

Se si vuole mettere mano a una nuova stagione di riforme elettorali e istituzionali, si pensi piuttosto, con coraggio, a riprendere l’ispirazione di un tempo e a rafforzare il potere dei cittadini di determinare con il proprio voto l’indirizzo politico del governo. Si esplorino altre possibilità e si disegni una strategia complessiva che metta insieme non solo legge elettorale, ma anche meccanismi istituzionali e regolamenti parlamentari diversi.

Ciò è essenziale tanto più in una situazione di forte integrazione europea nella quale la stabilità del governo è fattore essenziale per la sua capacità di rappresentare in modo incisivo le istanze del nostro Paese in sede internazionale, così come è essenziale che il Governo possa contare su un forte e stabile mandato sia del Parlamento che dell’elettorato, in modo da garantire ai cittadini la possibilità di sentirsi rappresentati anche a livello europeo.

Senza tutto questo il rischio è quello di un ulteriore, doppio, indebolimento del potere dei cittadini, nella scelta dei propri rappresentanti e nella determinazione della politica nazionale. Un indebolimento di questo potere produrrebbe non la stabilità sperata, ma estenuanti e logoranti continue negoziazioni tra le parti e ulteriori e più gravi fratture tra il cittadino e i suoi rappresentanti.

Michele Nicoletti

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