Riforme della Costituzione e orizzonte europeo

Riforme della Costituzione e orizzonte europeo (pubblicato sul primo numero della nuova serie della Rivista APPUNTI)

 

I destini della nostra società si giocano sempre più a livello internazionale.

L’affermazione è banale e tutti noi non facciamo che ripeterla, assentendo, quando viene evocata a proposito della globalizzazione che pare dominare la nostra vita: da ciò che mangiamo a ciò che respiriamo, dalle dinamiche del lavoro alle rendite finanziarie, dal terrorismo alle migrazioni, tutto pare legato a fenomeni di portata mondiale. Difficile trovare qualcuno che non sia d’accordo. Quando poi dal livello del mondo passiamo al livello europeo, la sostanza non cambia: tutti sono pronti a dichiarare che i destini dell’Italia si giocano sempre più a livello europeo. Vincoli finanziari, mercato del lavoro, investimenti, spazio della ricerca scientifica, opportunità per i giovani, eccetera, sono tutti temi che si decidono a livello europeo.

Da questa generale e nitida consapevolezza ci si aspetterebbe qualche conseguenza.

Ci si aspetterebbe, ad esempio, che quando si passa a metter mano alla nostra vita politica e alle nostre istituzioni, i grandi temi della democratizzazione delle istituzioni e della costituzionalizzazione del potere venissero declinati entro quell’orizzonte più ampio e non venissero affrontati invece sempre e solo entro un orizzonte curiosamente solo nazionale.

Il dibattito sulle riforme istituzionali, che accompagna ormai dall’inizio della legislatura i tentativi di modifica della Costituzione in Italia, testimonia purtroppo in modo piuttosto significativo questa strana dinamica.

Se osserviamo infatti la discussione attuale, essa appare caratterizzata da tratti piuttosto ideologici e astratti: per certi versi si discute di costituzionalizzazione del potere politico nell’Italia del 2014 come se nulla fosse cambiato dal 1948. Ed invece molto è cambiato non solo nelle dinamiche economiche e sociali, ma anche nelle dinamiche politiche e istituzionali che caratterizzano la sostanza e l’esercizio del potere sovrano. Se ci chiediamo se il potere politico sovrano concretamente operante oggi in Italia è lo stesso del 1948, la risposta è evidentemente “no”. Nel 1948 si trattava ancora – almeno in larga parte – del potere sovrano di uno Stato nazionale moderno e cioè di un’entità quasi a sé stante a fianco di altre entità parimenti sovrane. Nel 2014 si tratta di un potere ormai definitivamente articolantesi su livelli diversi da quello esclusivamente nazionale.

Si pensi alla classica triade del potere: nel 1948 avevamo un potere legislativo, esecutivo e giudiziario, tutti solidamente radicati e verrebbe da dire esauriti sul territorio nazionale. Nel 2014 abbiamo un potere legislativo in gran parte nelle mani delle istituzioni europee (Parlamento e Consiglio), per cui se non siamo a quell’80% di leggi fatte dall’Europa rispetto agli Stati nazionali che Jacques Delors profetizzava, non ne siamo molto distanti. Il potere esecutivo è decisamente articolato su livelli istituzionali diversi che vanno dal governo nazionale alla Commissione Europea, ma con elementi sostanziali del potere sovrano (dalla difesa militare al controllo sulla moneta) in mano a organismi sovranazionali. In terzo luogo un potere giurisdizionale affidato a un insieme di Corti sovranazionali come la Corte di Strasburgo e di Lussemburgo che si accompagnano alla nostra Corte Costituzionale dando vita a ordinamenti giuridici e ad amministrazioni della giustizia sempre più integrati tra loro e certo non esaurientisi sul piano nazionale.

Ora, la grande lezione del costituzionalismo moderno – e mi verrebbe da dire proprio di quello più impregnato di cultura storica come quello italiano e tedesco – è che chi vuole difendere la grande triade dei diritti umani, dello Stato di diritto e della democrazia – per restare fedele ai tre pilastri della civiltà europea così come affermati e custoditi dal Consiglio d’Europa – deve operare uno sforzo costante di “costituzionalizzazione” non di un potere politico in astratto, ma del potere politico che – nella situazione storica data – è concretamente operante entro una società. E il potere politico oggi si articola su livelli ormai plurali.

E dunque è dentro questa società e questo potere che si articola su più livelli che dobbiamo stabilire granitiche tutele ai diritti fondamentali, trovare gli adeguati bilanciamenti tra i poteri e inventare istituti e strumenti capaci di rendere sovrana la volontà popolare. Questo è l’orizzonte della sfida costituzionale per eccellenza e non quello antico, tutto nazionale, del confronto tra poteri interni.

La discussione odierna, invece, soffre di un inguaribile provincialismo per cui tutto sembra misurato sul piano della presunta lesione delle prerogative dell’uno o dell’altro organismo, come non fosse vero che da cinquant’anni a questa parte noi stessi abbiamo costruito – in condizioni di parità con altri Stati – ordinamenti e istituzioni sovranazionali a cui abbiamo consegnato parte della nostra sovranità. Cinquant’anni fa lo aveva visto con chiarezza la Corte di giustizia europea nella sentenza Costa del 15 luglio 1964 in cui si legge: «La Corte rileva che, a differenza dei comuni trattati internazionali, il Trattato C.E.E. ha istituito un proprio ordinamento giuridico, integrato nell’ordinamento giuridico degli Stati membri all’atto dell’entrata in vigore del Trattato e che i giudici nazionali sono tenuti ad osservare. Infatti, istituendo una Comunità senza limiti di durata, dotata di propri organi, di personalità, di capacità giuridica, di capacità di rappresentanza sul piano internazionale, ed in ispecie di poteri effettivi provenienti da una limitazione di competenza o da un trasferimento di attribuzioni degli Stati alla Comunità, questi hanno limitato, sia pure in campi circoscritti, i loro poteri sovrani e creato quindi un complesso di diritto vincolante per i loro cittadini e per loro stessi».

La costruzione di una più alta comunità giuridica e politica europea e il suo progressivo cammino di costituzionalizzazione culminato nella Carta dei diritti fondamentali e nel Trattato di Lisbona non sono il frutto di volontà estranee alla nostra vicenda costituzionale nazionale, esso riposa invece sulla straordinaria capacità di previsione dei Costituenti e su una precisa volontà politica del popolo italiano. Proprio dopo aver sperimentato la deriva distruttiva e dunque anticostituzionale delle chiusure nazionalistiche del fascismo e consapevoli delle dinamiche ormai internazionali dei poteri materiali e spirituali, i Costituenti hanno inserito nella Carta quella straordinaria clausola di auto-trascendimento del sistema stesso che è rappresentata dalla previsione dell’art. 11 per cui «L’Italia consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo».

Appare dunque strano che, dopo aver previsto nella Costituzione, questo processo di auto-trascendimento della sovranità nazionale e dopo averlo realizzato nei fatti e costituzionalizzato a livello europeo, nel momento in cui si mette mano in modo significativo all’impianto delle nostre istituzioni non emerga con forza nella discussione la consapevolezza che questo è l’orizzonte con cui misurarsi.

Perché è chiaro che quell’orizzonte ha modificato in profondità la natura e il ruolo degli organi interni. Si guardi al processo legislativo europeo – che ormai interessa buona parte della legislazione che regola la nostra vita collettiva –: come non cogliere che tale processo è il frutto di un’azione congiunta del Parlamento europeo e del Consiglio formato dai Governi nazionali? Ed allora se il Governo nazionale gioca un ruolo così importante nella definizione della legislazione europea, il problema non è solo strillare contro l’invasione di campo dell’esecutivo nell’ambito del legislativo, ma ancorare l’operato del Governo in sede europea e internazionale a un indirizzo politico determinato dal voto dei cittadini (come vuole fare la legge elettorale dell’Italicum – e come voleva la Tesi n. 1 del programma dell’Ulivo del 1996 con il Governo del Primo Ministro – contro quanti vorrebbero riconsegnare le sorti del Governo alle trattative tra partiti e partitucoli nazionali) e a chiare linee guida stabilite dal Parlamento (oggi abbiamo generiche informative del Governo in Parlamento prima dei Consigli Europei con votazione di mozioni contenenti buoni propositi).

Pensare di operare oggi un bilanciamento tra i poteri del Governo e del Parlamento avendo in mente il solo orizzonte nazionale e non quello europeo non è forse operazione astratta e a rischio di una qualche sterilità? L’esempio naturalmente non è del tutto calzante, ma sia concesso a fini retorici: come discutere esclusivamente dell’equilibrio tra i poteri all’interno dello Stato della California quando ormai il potere sovrano ha preso la strada di Washington? Il grande tema della costituzionalizzazione del potere oggi è come la volontà dei nostri cittadini può farsi legislazione europea e dunque come dare maggior forza – senza nulla togliere alla sede nazionale – alle nostre rappresentanze in sede al Parlamento europeo e al Consiglio, e quindi al nostro Governo, affinché possa porsi come attore autorevole alla pari degli altri sulla scena internazionale, insomma come soggetto e non come oggetto delle decisioni collettive.

Il punto è come far sì che le istituzioni politiche italiane aiutino i cittadini italiani ad esprimere, nel concreto oggi, il potere sovrano che è loro riconosciuto dall’art. 1 della Costituzione nei luoghi realmente decidenti a livello nazionale come a livello europeo.

In questo senso la discussione sul processo riformatore dovrebbe occuparsi maggiormente di questo snodo. Il superamento del bicameralismo paritario dovrebbe infatti essere l’occasione per mettere a fuoco un coerente sistema di partecipazione alla fase ascendente del procedimento legislativo europeo (i territori rappresentati nel Senato, la volontà politica nazionale dei cittadini organizzati in partiti rappresentati nella Camera, il Governo radicato nella volontà dei cittadini e legittimato, nonché costantemente indirizzato dalle linee della propria maggioranza parlamentare) e alla fase discendente con una rapida procedura di recepimento, armonizzazione e valutazione d’impatto della legislazione europea sulla realtà nazionale e territoriale. Parallelamente a una più chiara valorizzazione della rappresentanza nel Parlamento europeo attraverso rapporti organici con il Parlamento nazionale.

In questo senso la trasformazione del Senato in Senato delle Autonomie può non convincere su singoli punti (ad esempio la presenza anomala dei sindaci oppure una non chiarissima definizione del processo di partecipazione alla legislazione europea), ma riprende un disegno già emerso in sede di Assemblea Costituente di affiancare alla Camera politica per eccellenza – quella rappresentativa di tutti i cittadini – una seconda Camera rappresentativa dei territori (e dunque non eletta direttamente dai cittadini), con funzioni non politiche ma di interlocuzione tra Regioni, Stato e, appunto, Unione Europea.

Caricare il Senato di funzioni di garanzia non pare appropriato e di nuovo frutto di una visione prevalentemente nazionale. Il sistema delle garanzie attinenti i diritti fondamentali è da molti anni a questa parte saldamente in mano alla Corte Costituzionale e alla Corte Europea dei Diritti Umani: sono questi organismi che in questi anni di bicameralismo perfetto (in cui i diritti fondamentali sono stati tutt’altro che garantiti) hanno provveduto con le loro sentenze a smontare leggi che il Parlamento appariva incapace di modificare. E non solo in materia di diritti umani e civili, ma anche di diritti politici, si pensi alla recente sentenza della Corte sulla legge elettorale.

Così come appare improprio tentare di rilanciare una funzione “politica” del Senato assegnandogli una rappresentanza “diretta” dei cittadini. Ciò non rafforza la natura “democratica” della rappresentanza politica popolare, che si dà invece pienamente e sovranamente nella Camera (anche attraverso una legge elettorale che non stabilisca soglie troppo alte per l’accesso alla rappresentanza), ma piuttosto la condiziona e la indebolisce. L’idea di un Senato dei territori che prevede l’elezione indiretta dei suoi membri già stava nel programma dell’Ulivo del 1996 dove si leggeva: «Il Senato dovrà essere trasformato in una Camera delle Regioni, composta da esponenti delle istituzioni regionali che conservino le cariche locali e possano quindi esprimere il punto di vista e le esigenze della regione di provenienza. Il numero dei Senatori (che devono essere e restare esponenti delle istituzioni regionali) dipenderà dalla popolazione delle Regioni stesse, con correttivi idonei a garantire le Regioni più piccole. Le delibere della Camera delle Regioni saranno prese non con la sola maggioranza dei votanti, ma anche con la maggioranza delle Regioni rappresentate. I poteri della Camera delle Regioni saranno diversi da quelli dell’attuale Senato, che oggi semplicemente duplica quelli della Camera dei Deputati. Alla Camera dei Deputati sarà riservato il voto di fiducia al Governo. Il potere legislativo verrà esercitato dalla Camera delle Regioni per la deliberazione delle sole leggi che interessano le Regioni, oltre alle leggi costituzionali».

Non si abbandoni quella via che non a caso era fondata sulla chiara consapevolezza della collocazione europea dell’Italia, ma si cerchi invece di definire in modo più chiaro e lineare il rapporto tra Stato nazionale e ordinamenti sovranazionali a cui lo Stato delega parte della propria sovranità giacché questo tema – solo evocato e legittimato dalla Costituzione del 1948 – oggi è pienamente operativo e ha bisogno di una più rigorosa messa a punto.

Non basta dire “vogliamo più Europa”: è venuto il momento di collocare pienamente noi stessi, le nostre istituzioni, le nostre pratiche, le nostre organizzazioni politico-partitiche, la nostra formazione della classe dirigente entro un quadro europeo. Se vogliamo dare sostanza alla sovranità dei nostri cittadini nei luoghi in cui oggi si decide la nostra vita collettiva.

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